Pensieri

Qui il lettore può mettersi comodo e godersi la lettura di alcuni eruditi commenti sul progetto.

Sono qui raccolte le riflessioni di professionisti ed esperti pubblicati nel libro SAINTSCAPES. Vedute di Lombardia, per approfondire e guidare con contributi critici il significato del progetto Tra cielo e terra e il contesto in cui si inserisce.

Fin dalle sue origini, nel 2004, il Museo di Fotografia Contemporanea ha fatto della committenza pubblica uno dei percorsi di ricerca privilegiati, sia per interagire in maniera stimolante con gli artisti e promuovere lo sviluppo della cultura fotografica contemporanea, sia per arricchire le proprie collezioni in maniera consapevole e coerente.
Si tratta di è un terreno interessante, tutt’altro che neutro, su cui si misurano e innervano tensioni creative e artistiche, istanze sociali, civili e politiche, in costante dialogo tra la libertà dell’artista e le esigenze del committente, in un processo che affida e riconosce alla fotografia il grande potere di indagare, restituire, comunicare. Il Museo ha ereditato questa pratica da chi ha fortemente operato per la nascita del Museo stesso, ossia la Provincia di Milano, promotrice dell’imponente progetto di documentazione Archivio dello spazio (1987 – 1997) e l’ha adottata, sotto la direzione di Roberta Valtorta, come elemento fondante la sua identità: non solo ha portato avanti negli anni numerosi progetti, ma si è anche interrogato sui significati e i mutamenti che la committenza pubblica e la fotografia contemporanea andavano mano a mano vivendo, continuando a innestare in questa pratica elementi di sperimentazione e di “allargamento”, sia in termini di discipline chiamate a dialogare e concorrere tra di loro, sia di attori e pubblici coinvolti, sia di affinamento della dimensione educativa, oltre che creativa.

In questo senso il Museo, a partire da Salviamo la luna, progetto al tempo stesso lirico e potente di Jochen Gerz (2005-2007), ha innestato l’idea di committenza artistica su una piattaforma pubblica più ampia e relazionale, laddove i territori e le comunità diventano protagonisti del fare artistico e fruitori per eccellenza del prodotto finale, attraversando concetti quali identità, luoghi, collettività e partecipazione. Io parto-Madri oggi con Paola De Pietri (2008), The Mobile City (2008-2009), Art around_Immagini per lo spazio pubblico con Beat Streuli e otto giovani artisti emergenti (2011-2012), Ricordami per sempre, il fotoromanzo del Nord Milano con testi di Giulio Mozzi e fotografie di Marco Signorini (2012), Vetrinetta con Paolo Riolzi (2014-2015), il progetto europeo Urban Layers_Identity flows con sei giovani artisti internazionali (2015-2017) e Non così lontano. Passaggi di cultura a Milano Nord-Est (2017-2018) con il progetto Me Museo, la mostra collettiva SuperCity Cusanello San Dugnano e il gioco a squadre in piazza Photo-Jouer suonano come semplici titoli ma testimoniano di un prolungato lavoro del Museo con gli artisti, le comunità e i valori collettivi, con le pratiche di committenza, fotografia e arte pubblica, in un processo di continuo sconfinamento multidisciplinare e una modalità di agire relazionale, ossia dialogica e inclusiva. In queste pratiche si inscrive il processo lento ma virtuoso di radicamento del Museo nel territorio che lo ospita e l’interrogativo, sempre vigile, sul significato di essere oggi un’istituzione dedicata alla fotografia contemporanea dentro un territorio suburbano che aspira a essere area metropolitana milanese.

Proprio in occasione di uno di questi progetti pubblici, Urban Layers, abbiamo conosciuto l’artista Claudio Beorchia: la sua opera, Stato di emergenza, consisteva nell’azione di issare a guisa di bandiera, sulle sedi di istituzioni pubbliche, la coperta termica usata come soccorso ai migranti. In questa, come in altre sue opere, l’aspetto più propriamente concettuale si coniuga con una incredibile naturalità; spesso i temi trattati rivelano urgenza e necessità, ma nel suo linguaggio vi è sempre un tratto distintivo di delicata leggerezza.

Così la sua idea di guardare alle trasformazioni del paesaggio attraverso lo sguardo vigile e immoto dei santi che punteggiano il nostro territorio, depositari dei valori spirituali e di devozione popolare – spesso resilienti, forse oramai superati – delle comunità che quei territori abitano, si è conciliata con la volontà del Museo di parlare stavolta a un “pubblico agente”, ben più ampio di quello cittadino e metropolitano, coincidente con quello dell’intera regione Lombardia.
Secondo una metodologia ormai consolidata, il progetto di fotografia partecipata Tra cielo e terra, con la messa a punto delle dinamiche più propriamente relazionali del progetto, le modalità e gli strumenti partecipativi impiegati per raggiungere comunità ampie, è nato in una stretta collaborazione tra l’artista e il curatore del Museo, Matteo Balduzzi, che di queste pratiche artistiche ha ormai all’attivo un’esperienza ventennale in termini di conoscenza, ideazione e coordinamento.

Il successo finale del progetto, un archivio di quasi 6.000 fotografie realizzate appositamente e caricate sulla piattaforma online messa a disposizione da Rete Civica Milanese, è stato reso possibile innanzitutto grazie ai protagonisti stessi, i partecipanti-fotografi, gli abitanti del territorio lombardo che hanno accettato la sfida e si sono messi sulle tracce dei santi disseminati nel paesaggio, registrandone il punto di vista; inoltre grazie alla generosa collaborazione dei poli culturali regionali che abbiamo chiamato a diffondere il progetto e raggiungere la cittadinanza: l’Accademia di Belle Arti “G. Carrara” di Bergamo, la Casa Museo Cerveno (BS), l’Ecomuseo della Postumia (MN), l’Ecomuseo della Prima Collina (PV), l’Ecomuseo di Valle Trompia (BS), EUMM – l’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord, MUMI – l’Ecomuseo Milano Sud, il Museo Diocesano di Arte Sacra di Lodi, il Museo Ma*GA di Gallarate (VA).

Il progetto, inoltre, ha potuto contare sulla collaborazione di AESS – Archivio di Etnografia e Storia Sociale della Regione Lombardia e di Fondazione Ente dello Spettacolo.
Né infine va dimenticato che il progetto è stato possibile grazie all’importante contributo di Fondazione Cariplo, da anni impegnata nel sostegno e nella promozione di progetti innovativi di utilità sociale legati al settore dell’arte e cultura, dell’ambiente, dei servizi alla persona e della ricerca scientifica.

Nel corso dell’estate 2019 centinaia di persone hanno percorso il territorio della regione Lombardia alla ricerca delle figure sacre custodite nelle edicole – santelle, chiesolini, capitelli – e hanno fotografato i paesaggi che queste si trovano a osservare, sviluppando collettivamente e in forma estesa una ricerca ideata dall’artista Claudio Beorchia alcuni anni fa in Sicilia e successivamente riproposta in altri luoghi d’Italia con il nome Di fede osservanti.

Le radici del lavoro si possono ritrovare in una importante tradizione della fotografia italiana, a lungo dedita all’osservazione del paesaggio, e in alcune esperienze concettuali che negli anni Settanta hanno sperimentato modalità “automatiche” di uso della fotografia.
Il primo e più evidente aspetto ha a che fare con i soggetti delle fotografie che compongono il progetto. Da questo punto di vista possiamo considerare un patrimonio consolidato, non solo della fotografia ma della cultura italiana, l’esperienza che da Viaggio in Italia in poi ha portato diverse generazioni di fotografi a confrontarsi con le stratificazioni del territorio, elaborando una poetica in cui il rinnovamento dei linguaggi si accompagna alla riscoperta di luoghi insoliti, marginali, non turistici. Se osserviamo le fotografie realizzate dagli autori del progetto, risulta difficile non riconoscere la loro normalità come prodotto di uno sguardo democratico, che rifugge dalla ricerca di ogni spettacolarità per posarsi con la stessa attenzione su qualsiasi cosa, come “atto di devozione verso le cose”, per usare un’espressione di Guido Guidi che in questo contesto suona particolarmente pertinente.
Il secondo aspetto riguarda invece le modalità secondo cui le immagini sono prodotte. Claudio Beorchia non è nuovo alla sperimentazione di dispositivi di visione pre-orientata, utilizzati spesso in modo irriverente e spiazzante, hackerando in funzione fotografica i dispositivi ottici più diversi come gli scanner per la sicurezza negli aeroporti (Natura Morta per scanner, 2013), le videocamere poste sul paraurti posteriore delle auto in On the Road (backwards), 2017, la trasformazione in macchine reflex giganti di cabine photomatic (Automatic Landscapes, 2012-2015) per fotografare gli spazi indefiniti e di passaggio, a lungo chiamati non luoghi, in cui esse permangono. Si tratta delle stesse cabine photomatic utilizzate quasi cinquant’anni fa da Franco Vaccari, uno dei più lucidi sperimentatori degli usi concettuali della fotografia in Italia: tanto nella celebre installazione per la XXVI Biennale di Venezia quanto nel caso di una vera e propria presenza nello spazio pubblico con il successivo progetto Photomatic d’Italia, l’arretramento dell’autore e la rinuncia a ogni controllo compositivo dell’immagine consentivano un ruolo attivo del pubblico e aprivano l’esperienza artistica a una inedita dimensione relazionale.

Tra cielo e terra ricombina quindi esperienze codificate in ambito artistico e le propone a un pubblico ampio, senza insistere su riflessioni teoriche che possiamo considerare ormai assodate e tuttavia conservandone la profondità esistenziale, che viene riattivata in quanto esperienza collettiva di conoscenza e di costruzione di senso. Il successo del progetto, ben oltre le aspettative sia in termini quantitativi che per la qualità e la ricchezza della risposta, ribadisce quanto un certo tipo di arte sia ancora capace di affrontare in modo semplice e giocoso questioni universali e testimonia una volta di più l’esistenza di una domanda di spazi di riflessione e sperimentazione estranei alle logiche di mercato e di consumo, anche e soprattutto da parte di cittadini che vivono in territori sempre più esclusi da quell’accumulo di capitale, opportunità e sapere che si concentra nelle grandi aree metropolitane.
Percorrere fisicamente grandi distanze, con tempi lenti e attenzione ai particolari; operare in modo metodico nella scelta delle inquadrature e nel trattamento dell’immagine; mettersi al servizio con disciplina di un concetto elaborato dall’artista: l’invito a partecipare presupponeva un impegno notevole, tutt’altro che scontato, ma ha evidentemente rappresentato per le persone un’alternativa alla visione iper-semplificata dei luoghi e all’immediatezza, autocompiacimento e individualismo che spesso connotano l’uso dell’immagine sui social media. Allineare il proprio sguardo a quello delle immagini sacre – in qualche modo assoluto, trascendente – ha inevitabilmente generato una temporalità sospesa rispetto ai ritmi incessanti e frammentati della vita di tutti giorni, recuperando consapevolezza della dimensione ancestrale e sacrale, tanto dei luoghi quanto dell’atto di guardare.

Le 2911 immagini raccolte rappresentano la parte visibile di un percorso di quasi un anno che ha prodotto discussioni, incontri, riflessioni – più o meno esplicite – e ha comportato molte migliaia di chilometri percorsi in auto, a piedi e con ogni mezzo nella vastità e nella varietà del territorio lombardo, attraversando pianure, montagne e città. Si tratta di un patrimonio vitale di esperienze, il cui inevitabile disordine vibra all’interno di una cornice unitaria, nella tensione che si crea tra la dimensione partecipativa e la struttura concettuale e formale, ricalcata su apparati di conoscenza di tipo scientifico ed enciclopedico.
L’archivio integrale, riportato nei corposi indici che compongono questo volume e consultabile sulla piattaforma web, costituisce la base del lavoro ed è formato da 2911 edicole distribuite sul territorio regionale in modo non scientifico ma ugualmente capillare, secondo le traiettorie dei quasi trecento autori. I titoli di fantasia attribuiti alle edicole e le annotazioni personali contribuiscono a sottolineare la natura soggettiva e partecipativa dell’archivio.
Una selezione di oltre ottocento edicole, che mettono direttamente in relazione le immagini dei santi e il loro sguardo, è ordinata attraverso dieci tassonomie, a esemplificazione delle infinite possibilità – o impossibilità, direbbe Perec – di attraversamento di ogni archivio. Le categorie sono ricavate dall’artista riprendendo in modo poetico le iscrizioni rinvenute sulle edicole stesse, con un procedimento che mette in discussione la nozione stessa di tipologia e di serialità pur mimandone la struttura e i codici estetici.
Infine, le oltre duecento tavole che aprono il libro, presentano in modo più sintetico e rarefatto, fedele al concetto originario della ricerca, il puro sguardo dei santi, in soggettiva, grazie alla sagoma dell’immagine ricalcata esattamente sulla forma dell’edicola da cui la figura si sporge verso l’ambiente circostante. Selezionate tanto per il valore estetico quanto per una rappresentatività degli autori e degli ambiti geografici, queste immagini costituiscono una sorta di meditazione sul paesaggio lombardo attraverso la inaspettata varietà delle forme delle edicole, di cui vanno a costituire una sorta di delicato catalogo.


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Tra cielo e terra: edicole, cappelle, statue votive, affreschi, croci… segni religiosi, muti testimoni del sacro, a dispetto di ogni previsione, continuano a caratterizzare il paesaggio italiano, appesi ai muri delle case, fissi ai crocicchi delle vie o alle cancellate dei giardini.
Non sono solo reliquie del passato, talora pitture di buona qualità o abbozzi di mano inesperta, più spesso figure di innocente candore, ma anche immagini recenti, segni di nuove devozioni e di affidamenti che resistono al disincantamento del mondo.

La loro presenza è discreta, forse per la familiarità acquisita: quasi si scorre via senza accorgersene, ma quando si inizia a segnarne la presenza, ecco emergere una sorprendente mappatura del sacro. Madonne, santi e crocifissi, col loro sguardo immoto, appaiono non più reperti erratici, ma nodi di senso, emergenze di una topografia religiosa, punti di ancoraggio per una geografia dell’anima. Verso le edicole, come attratte dalle superfici dipinte, dai rilievi devoti, scorrono vie e vedute, tragitti ancora ordinariamente percorsi o semplici vestigia di un disegno urbano perduto; a loro volta gli sguardi santi orientano lo spazio, tracciano prospettive dell’invisibile, una sorta di cartografia minore, di tessitura di dettaglio sulla più ampia trama di chiese, di campanili, di conventi e di cappelle, che costellano lo spazio così reso sacro.

Talvolta il reticolo viario e l’orizzonte visivo sono così mutati, che l’immagine sacra si condensa in potenza, come un punctum che appella a una memoria lontana, a un paesaggio altro o a una futura migrazione. Segni di cura, ceri e fiori, qualche cartiglio consunto di preghiera connotano la sacra presenza, balsamo di pietà all’usura del tempo, talora dell’incuria e di qualche inciviltà graffittara – forse anche lì preghiera gridata -, quello che più attrae, tuttavia, è lo sguardo dei santi.

Oggi furtivamente altri occhi, elettronici o digitali, scrutano lo spazio urbano, pubblico e privato: videocamere, smartphone, sistemi di controllo e di tracciamento, apparecchi discreti ancorati agli edifici o sospesi in altezza registrano giorno e notte lo scorrere della vita. Quello dei santi è uno sguardo diverso, legato alla figura umana, confidente e benevolo: la serenità e il senso di protezione che ispira è lontano dalle dinamiche di estraniazione e di curiosità, se non di sorveglianza e punizione, degli attuali dispositivi di sicurezza e di digitalizzazione della vita quotidiana. Sarà che ogni immagine sacra è frutto di una grazia ricevuta, di un voto, di una relazione fiduciale che ne spiega l’origine e non smette possibilmente di replicarsi nelle attese e nelle invocazioni dei passanti.

La liturgia latina, nel prefazio della festa di Tutti i Santi, ne parla semplicemente come di “amici e modelli di vita”, come figure di identificazione e di testimonianza. Alle forme di esibizione e promozione narcisistica della propria immagine, che animano le rappresentazioni pubblicitarie, i santi contrappongono l’immediatezza della loro autenticità di vita e il paradosso di una esistenza realizzata non nella ricerca di sé, ma nel dono gratuito e nell’affidamento a Dio. Lo sguardo dei santi non cerca tanto di inquadrare la realtà nella prospettiva singolare e angusta del proprio punto di vista, la osserva piuttosto nella “prospettiva rovesciata” del “farsi prossimo”, che custodisce il mistero dell’altro, lo avvicina con rispetto e contempla con amore a partire dall’eterno.
In un folgorante aforisma contenuto nel Discorso della montagna, Gesù annota come la realtà possa cambiare a partire da quella “luce”, insieme fisica e morale, che è l’occhio. “La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!” (Matteo 6,22-23). La tonalità negativa dell’esemplificazione stigmatizza la facile miopia e il torvo pessimismo che sovente attentano alla limpidità “semplice” dello sguardo umano, soprattutto vuole esortare a ritrovare una luminosità anzitutto interiore, che arrivi a riverberare sull’intera persona fino a trasfigurarne nella santità anche il corpo.

Le edicole dei santi, con i loro fornici, inquadrature e specchiature sono in realtà finestre che aprono e mettono in comunicazione orizzonti e tempi diversi: il contingente e l’eterno, l’umano e il divino. All’interno delle cornici, protette da vetri e inferriate o semplicemente esposte alla consunzione, si offrono le figure dei santi: nei loro corpi è condensata una luminosità di vita esemplare, una storia umana scritta in un’epoca e fissata nell’approdo finale della beatitudine eterna. I loro occhi vedono il mutare del paesaggio urbano e rurale, guardano lo scorrere frenetico degli uomini, già contemplano, così scrive l’Apocalisse (cf. 21,1-5), “un cielo nuovo e una terra nuova” e Colui che “fa nuove tutte le cose”.

Anche per chi non crede fermarsi a leggere questi segni della devozione popolare, in dialogo vivo col territorio, cambiare sguardo nell’osservare il quotidiano, considerarlo dall’alto, con la benevolenza di chi percepisce la realtà anzitutto come un dono e nella prospettiva di un tempo disteso è un esercizio prezioso, che introduce alla dimensione contemplativa della vita e alla sua bellezza tra cielo e terra.


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“Tra cielo e terra” ha rappresentato un progetto di ricerca letteralmente straordinario (ossia eccezionale, senza precedenti) da diversi punti di vista, ciascuno dei quali legato a una particolare accezione proprio del termine “ricerca”: ricerca intesa come indagine sistematica volta ad accrescere le cognizioni che si possiedono riguardo a un dato fenomeno – che, nel caso specifico, molti considerano noto, ma pochi hanno studiato a fondo nella sua effettiva consistenza complessiva – senza che sia possibile prefigurare il risultato finale dell’operazione; ricerca intesa come investigazione finalizzata al riconoscimento di personaggi, i santi, nella loro raffigurazione più o meno artistica, sulla cui presenza in una data città, o magari in un certo quartiere, sovente si avevano notizie certe, ma indicazioni vaghe; per qualcuno, poi, ricerca intesa come riscoperta di una figura famigliare, o anche solo nota, con cui riallacciare i rapporti che nel tempo si erano interrotti.

In tutti i casi, il progetto ha portato quanti vi hanno preso parte a fare visita a “individui” nel luogo in cui essi “abitano”. Ognuno dei santi fotografati, infatti, abita (nel senso originario di avere consuetudine con un dato luogo) un preciso contesto perché lì, spesso da lungo tempo, ha la sua dimora, l’edicola che lo ospita. La parola “edicola” combina – in virtù della matrice latina aedes – il riferimento a due archetipi tra loro prossimi: quello della casa e quello del tempio, la casa della divinità. In quanto “piccola casa” o “piccolo tempio”, l’edicola, pur se di ridotte dimensioni e talvolta solo simulata attraverso artifici prospettici, è a tutti gli effetti un’architettura e, in quanto tale, condensa in sé gli elementi tipici di ogni architettura: l’ambiente interno, la determinazione e la conservazione del quale costituiscono la vera ragion d’essere di ogni edificio, la copertura e le pareti, garanzia di privatezza e di difesa; queste ultime sono poi a loro volta accompagnate dal necessario corredo di aperture, porte e finestre, che, se da un lato concorrono a delimitare e racchiudere l’interno insieme alle pareti stesse, dall’altro appaiono come i punti di reciproco contatto tra la parte più intima e raccolta della costruzione, il suo cuore, e l’esterno, considerato tanto come contesto fisico, quanto come paesaggio. Per effetto dell’estremizzazione delle sue caratteristiche, a partire dalle dimensioni, perlopiù di poco superiori a quelle dell’ospite cui è dedicata, quasi si trattasse di una cella monastica, l’edicola presenta generalmente un’unica apertura, a un tempo passaggio per accedervi, soglia che delimita e pone in dialogo interno ed esterno e affaccio verso il mondo circostante; un’apertura che spesso, nei casi esaminati, da elemento di debolezza dal punto di vista strutturale diventa, attraverso un processo di sublimazione, caratteristica qualificante il manufatto per effetto della sua sottolineatura mediante l’applicazione di un ordine architettonico o, semplicemente, di una cornice.

Superando ogni consuetudine, “Tra cielo e terra” ha condotto i partecipanti a porre in particolare risalto proprio le funzioni distinte, ma coincidenti, della porta che conduce all’interno del tempietto che è l’edicola e della finestra da cui il santo si offre alla vista di chi sosta all’esterno della sua casupola (o cella monastica), come da una teca-reliquiario avvolta da un’aura di mistero.

A tal proposito non si può dimenticare che Le Corbusier, il maestro di cui, parlando di architettura sacra contemporanea, sono abitualmente citati due edifici dedicati alla Vergine, la cappella Notre-Dame-du-Haut (1950-55) a Ronchamp e il convento di La Tourette (1956-60) a Éveux presso Lione, affermò per tutta la vita che la sua idea di architettura – animata dal dialogo individuo/collettività e interiorità/paesaggio – si ispirava al ricordo delle visite fatte di persona a una certosa, quella di Galluzzo presso Firenze, in occasione di due viaggi compiuti ancora ventenne in Italia: abbracciare con lo sguardo dalla finestra (nel caso specifico una “feritoia”) della cella gli «orizzonti toscani» che nei secoli tanti monaci avevano ammirato, significava condividere con loro il privilegio di gustare a un tempo «l’infinito del paesaggio» e «la compagnia di se stessi».

Dei paesaggi che ci consegnano gli scatti del progetto “Tra cielo e terra”, accomunati da quella che può dirsi una obbligata “oggettiva soggettività” – in quanto, a termini di regolamento, frutto dell’assunzione di precisi punti di vista, esclusivi e fissi nel tempo proprio come quelli determinati dalle “feritoie” della certosa fiorentina, e volutamente privi di “correzioni” –, colpisce il valore di eloquente documento non solo della straordinaria varietà del territorio lombardo, ma anche della disuguale velocità con cui esso muta nel tempo. Sappiamo tutti quanto sia multiforme una regione come la Lombardia, con il 41 % del territorio a carattere montano e il 12 % collinare; con la porzione pianeggiante delimitata a sud dal Po, il fiume più lungo d’Italia, ma solcata anche da Ticino, Adda e Mincio e impreziosita a nord dall’ineguagliabile corona dei laghi prealpini; con il sistema delle residenze ducali extraurbane di epoca visconteo-sforzesca e l’oblunga conurbazione che da Milano giunge fino a Gallarate; con la costellazione delle ville di delizia a presidio della pianura “asciutta” settentrionale e i grandi insediamenti monastici a ricordare il primo sfruttamento agricolo di quella “umida” meridionale. Sappiamo anche come la sua complessità non possa essere rappresentata compiutamente attraverso qualche cartolina, per quanto artistica. Con la molteplicità dei suoi contributi, viceversa, “Tra cielo e terra” restituisce tale articolazione con sorprendente immediatezza e rara efficacia.

All’imperturbabilità del santo nella sua edicola, corrisponde infatti in qualche caso l’assoluta inviolabilità del panorama garantita dalla sua stessa maestosità o dalla incontestabile storicità (come nel caso di una vetta alpina o di un vicolo nel cuore di un borgo medievale); altre volte il permanere di usi del suolo cui si accompagna, per ciò stesso, la rassicurante ciclicità delle fasi del suo sfruttamento stagionale (ce lo testimonia in più di un’immagine l’ondeggiare al vento delle spighe di grano pronte per la mietitura); altre, ancora, una sorta di sospensione, simile a un’apparente definitività, del contesto nel frattempo divenuto di fatto inaccessibile o magari solo marginale rispetto ad aree a più rapida trasformazione (perché magari all’interno di un chiostro abbandonato o lungo un sentiero di montagna). Numerosi sono poi, come prevedibile, i casi di sconvolgimento del “quadro” esterno, oggi indifferente alla presenza del santo, se non addirittura in stridente contrasto con essa (per esempio là dove viene preclusa la visione del “suo” orizzonte dall’ingombrante sagoma di scale di sicurezza metalliche, cassonetti o recinzioni di cantiere).

Quando ciò si registra, a risultare compromesso spesso non è però solo il rapporto tra l’immagine sacra e il contesto, ma la qualità complessiva del paesaggio circostante, come se il disvelamento e il rispetto del genius loci – le qualità che rendono unico ciascun angolo del mondo –, richiesti a ogni progettista quale esito di un’ulteriore forma diricerca a premessa dell’intervento, fossero strettamente connessi al disvelamento e al rispetto del valore di locus Sancti che la presenza di un’edicola e del suo benevolo abitante conferisce al luogo stesso.


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